Le azioni a difesa della proprietà
Le azioni a difesa della proprietà sono previste e disciplinate dai seguenti articoli del codice:
- Art. 948 c.c. Azione di rivendicazione
- Art. 949 c.c. Azione negatoria
- Art. 950 c.c. Azione di regolamento di confini
- Art. 951 c.c. Azione per apposizione di termini
Il legislatore le ha previste in ragione dell’importanza che la proprietà riveste nel nostro ordinamento, tanto che questo diritto reale, che è il più ampio tra quelli previsti e disciplinati dal codice civile, riceve tutela e riconoscimento anche a livello costituzionale.
Il diritto di proprietà
Il nostro ordinamento predispone azioni di tutela apposite perché diritto di proprietà è il più ampio dei diritti reali. Perfino la Costituzione dedica alla proprietà una norma. Si tratta dell’art 42, secondo il quale “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.”
Dalla norma emerge la funzione sociale della proprietà privata, tanto che solo la legge può stabilire dei limiti a tale diritto, inoltre essa può essere espropriata solamente in presenza di un interesse generale superiore e comunque salvo indennizzo al legittimo titolare.
L’azione di rivendicazione
La prima azione che il codice civile prevede a tutela della proprietà è quella di rivendicazione, con la quale “Il proprietario può rivendicare la cosa, da chiunque la possiede o detiene e può proseguire l’esercizio dell’azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa. In tal caso il convenuto è obbligato a recuperarla per l’attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno”.
Il proprietario, ex art. 948 c.c., se consegue direttamente dal nuovo possessore o detentore la restituzione della cosa, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo di essa.
L’azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell’acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione. Dalla norma emerge che l’azione di rivendicazione è una tipica azione di condanna. Nel momento in cui il proprietario riesce a dimostrare il suo diritto di proprietà sulla cosa, l’azione di accertamento non potrà infatti che concludersi che con una condanna alla restituzione del bene.
L’onere probatorio
Ciò che caratterizza tale azione è senza dubbio l’onere probatorio che la legge pone a carico del rivendicante, onere che tuttavia, in alcuni casi, risulta attenuato. Tale concetto, solo apparentemente difficile da comprendere, è stato esposto chiaramente dall’ordinanza n. 22910/2018 della Cassazione, la quale chiarisce che: “colui che agisce in rivendicazione deve provare la sussistenza dell’asserito dominio sulla cosa rivendicata, risalendo, anche attraverso i propri danti causa, fino ad un acquisto a titolo originario o dimostrando il compimento dell’usucapione ed, in questo secondo caso, se il possesso è contestato dal convenuto, non adempie al suo onere probatorio semplicemente limitandosi a dimostrare che il titolo, o i titoli, risalgono ad un ventennio, ma deve provare di avere, egli e i suoi danti causa, posseduto l’immobile continuativamente dalla data del titolo stesso, salva la presunzione, iuris tantum, di possesso intermedio (cfr. Cass. 7.5.1984, n. 2766)”.
La Cassazione ha osservato altresì che, in tema di azione di rivendicazione, qualora il convenuto non contesti l’originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa, l‘attore è tenuto a provare solamente l’esistenza di un valido titolo di acquisto da parte sua, l’appartenenza del bene al suo dante causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere, nonché che tale appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto (cfr. Cass. 18.1.2016, n. 694; Cass. 17.4.2009, n. 9303).
Inoltre, in tema di azione di rivendicazione l’onere della cosiddetta probatio diabolica, che incombe sull’attore, “si attenua quando il convenuto deduca, a scopo difensivo, un titolo di acquisto, quale l’usucapione, che non sia in contrasto con l’appartenenza ai danti causa dell’attore del bene rivendicato, con la conseguenza che detto onere è correttamente assolto allorquando l’attore provi che, in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere, il bene è appartenuto ai suoi danti causa, che detta appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto e che il bene è a lui pervenuto in virtù di un valido titolo di acquisto” (cfr. Cass. n. 22910/2018).
L’azione negatoria
Ora, se l’azione di rivendicazione ha lo scopo di affermare l’esistenza del diritto del legittimo proprietario su un bene, quella negatoria viene intrapresa quando il proprietario vuole che venga accertata l’inesistenza di diritti altrui sulla cosa di sua proprietà.
Recita infatti l’art 949 c.c. “1. Il proprietario può agire per far dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio. 2. Se sussistono anche turbative o molestie, il proprietario può chiedere che se ne ordini la cessazione, oltre la condanna al risarcimento del danno”.
Risarcimento che tuttavia, non è sempre dovuto. La Cassazione infatti nella sentenza n. 22026/2018, precisa che l’actio negatoria servitus “è finalizzata, non solo all’accertamento dell’inesistenza della pretesa servitù altrui, ma anche all’eliminazione della assunta situazione antigiuridica, posta in essere dal terzo mediante la rimozione delle opere lesive del diritto di proprietà dal medesimo realizzate, allo scopo di ottenere la effettiva libertà del fondo. Pertanto, in tema di “actio negatoria servitutis”, il risarcimento del danno (…), in aggiunta al ripristino della situazione violata, non è dovuto ove non risulti, neppure in via indiziaria, che dall’illegittimo esercizio della servitù sia derivato un concreto pregiudizio patrimoniale alla parte avente diritto.”
L’azione di regolamento di confini
L’azione di regolamento di confini, la cui disciplina è contenuta nell’art. 950 c.c è prevista invece nel momento in cui il confine tra due fondi è incerto. In questo caso ciascuno dei proprietari confinanti può agire in giudizio per fare in modo che lo stesso venga accertato giudizialmente nel corso di una causa. In questo giudizio, come prevede l’art. 950 c.c “Ogni mezzo di prova è ammesso. In mancanza di altri elementi, il giudice si attiene al confine delineato dalle mappe catastali.”
Proprio sulla valenza probatoria dei certificati catastali si è espressa di recente la Cassazione, chiarendo nell’ordinanza n. 11770/2019 che: “in tema di regolamento di confini, il ricorso al sistema di accertamento sussidiario costituito dalle mappe catastali (art. 950 cod. civ.) è consentito al giudice non soltanto in caso di mancanza assoluta ed obbiettiva di altri elementi, ma anche nell’ipotesi in cui questi (per la loro consistenza o per ragioni attinenti alla loro attendibilità) risultino, secondo l’incensurabile apprezzamento svolto in sede di merito, comunque inidonei alla determinazione certa del confine, con la conseguenza che la parte che eventualmente si dolga del ricorso, da parte del giudicante, a tale mezzo sussidiario di prova, ha l’onere di indicare gli specifici elementi alla cui stregua andrebbe, invece, difformemente accertata la linea di confine controversa (Cass. 30.12.2009, n. 28103; Cass. 7.9.2012, n. 14993).
L’azione di apposizione dei termini
L’ultima azione contemplata dal codice per difendere il diritto di proprietà è quella per apposizione di termini prevista dall’art 951 c.c, azionabile “Se i termini tra fondi contigui mancano o sono diventati irriconoscibili, ciascuno dei proprietari ha diritto di chiedere che essi siano apposti o ristabiliti a spese comuni.”
Azione di apposizione di confini che, come affermato dalla sentenza n. 17818/2014 della Corte di Cassazione “presuppone l’esistenza di un confine certo e determinato, e mira ad ottenere soltanto che la linea di demarcazione tra proprietà contigue sia resa possibile e riconoscibile mediante la collocazione di segni esteriori che indichino materialmente il tracciato.”
Azione che inoltre, come sostenuto dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 12226/2014, anche se richiede l’esistenza di un confine certo e determinato, può trasformarsi in un’azione di regolamento di confini “nell’ipotesi in cui il convenuto contesti l’indicazione dei confini data dall’attore” visto che in questo caso “il tema si sviluppa in tutta la sua implicita estensione”.
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